Giovanni Paisiello – 6 Quartetti per Flauto Op.23

Nel redigere un programma di sala o le note di copertina di un disco ci si concentra normalmente, per concisione, sulle notizie storico-musicali relative ai brani eseguiti e sulle principali caratteristiche compositive e tecniche degli stessi. Meno frequente è il riferimento alle modalità esecutive che, per un certo repertorio del passato, possono divergere anche notevolmente da quelle attuali; altrettanto inusuale, se non più raro, è il riferimento al contesto sociale ed economico in cui un certo genere musicale del passato trovò linfa e favorevole accoglienza. Il repertorio qui eseguito è particolarmente rappresentativo al riguardo in quanto, a cavallo tra Sette e Ottocento si diffusero in Europa nuove consuetudini musicali, in particolare nel repertorio da camera, favorite dal crescente ruolo assunto da un nuovo genere di appassionati appartenenti al ceto ascendente della borghesia, e dunque col favore anche di fattori socio-economici.

L’emergere di una nuova classe impiegatizia e imprenditoriale fu infatti caratterizzato dalla formazione di un nuovo pubblico dotato di tempo libero da dedicare alla musica e alle arti, con modalità ed esigenze differenziate, ma di solito alternative a quelle fino ad allora rappresentate dalla classe aristocratica. Riguardo al passaggio tra la committenza musicale aristocratica e quella borghese mi pare utile ricordare proprio il ruolo avuto da Paisiello, musicista inizialmente e principalmente attivo al servizio dell’aristocrazia (basti pensare ai rapporti con Ferdinando di Borbone a Napoli e al periodo speso a San Pietroburgo da Caterina di Russia), ma anche compositore prediletto e mai dimenticato del primo grande ‘borghese’ della storia, ossia Napoleone. Anzi proprio i rapporti tra Paisiello e il generale francese, anche dopo il definitivo abbandono di Parigi e il ritorno a Napoli del compositore, paiono il contesto più favorevole per intendere il mutato clima di committenza musicale che si venne a creare, nella capitale francese e nel resto dell’Europa continentale dopo il 1789. E’ nell’ambito di tale cambiamento che va infatti inquadrato l’interesse amatoriale per l’esecuzione in piccoli complessi di strumenti musicali, uno dei quali sovente con ruolo di solista o di protagonista, e non di rado anche di committente del brano eseguito. Nel periodo in oggetto, che non senza forzatura viene definito ‘classico’, il complesso cameristico più in voga tra la nuova schiera di amatori divenne certamente il quartetto d’archi (2 violini, viola, violoncello), complesso che nel giro di qualche decennio passò dall’ambito musicale aristocratico a quello dei dilettanti borghesi (e qui ‘dilettanti’ – sia detto esplicitamente – va inteso come musicisti ‘per diletto’, di certo non nell’altra accezione del termine).

Lo stesso quartetto d’archi, nell’ultima parte del Settecento, è stato recentemente oggetto di alcuni studi specialistici che hanno ribadito un dato in parte già noto, ossia il consistente contributo fornito a tale repertorio da compositori italiani, parzialmente o temporaneamente attivi all’estero. Tra questi innanzitutto Boccherini a Madrid, con il primato di ben 91 quartetti ad arco; Giuseppe Maria Cambini a Parigi, con circa 55; Viotti prima a Parigi e poi a Londra, con 18 quartetti scritti tra 1783 e 1785. E un discorso a parte meriterebbe Pietro Nardini che rientrò per tempo in Italia (nel 1766) dal suo posto presso la corte di Stoccarda, per stabilirsi poi a Firenze e insediarsi durevolmente nell’orchestra granducale (6 quartetti). E la lista potrebbe ovviamente continuare. Dunque è “sulla carta d’Europa che bisognerebbe seguire i percorsi e i successi del quartetto italiano all’epoca di Mozart” (Garnier-Panafieu) e, più in generale, della musica strumentale italiana della stessa epoca. Ma questa posizione sembra fidarsi troppo del fatto che le pubblicazioni di questi brani sono di norma effettuate all’estero.

Tuttavia pochi tengono in considerazione che in Italia la stampa musicale nel secondo Settecento risulta pressoché inesistente, giacché fino all’avvento di Ricordi (1808) la musica qui si copiava a mano, e dunque bisognerebbe cercare nelle biblioteche, dove infatti si trova un immenso patrimonio al riguardo. Va inoltre tenuto conto di certi fenomeni di costume alla base del successo di qualche altro strumento e non solo degli archi. Il Dizionario (1826) di Lichtenthal, un’opera fondamentale per l’analisi del gusto musicale italiano dell’epoca precedente, riporta ad esempio alla voce “flauto” la seguente testimonianza: “Il Flauto si distingue per l’estensione, per la ricchezza e varietà de’ suoi suoni ed accenti. Oltre che ha molto brio, riesce anco molto aggradevole, allorché cerca di imitare il Canto della voce umana ne’ suoni medj, e non modula troppo ne’ suoni molto acuti o molto gravi”. Una tale descrizione sembra ideale per trasportarci nell’ambito del repertorio qui oggetto di registrazione. La connotazione ‘molto aggradevole’ potrebbe infatti aprire il discorso riguardo all’accoglienza del flauto nella buona società italiana, avvenuta più o meno nel tardo ‘700, adozione che lo collocò in una posizione più elevata rispetto a qualsiasi altro strumento a fiato e che conobbe un successo davvero superiore a quanto ci si potrebbe aspettare.

E Napoli non sembra essere affatto marginale rispetto al fenomeno. Se si abbandonano le fonti a stampa e si passa agli archivi e biblioteche musicali, le sorprese al riguardo non sono poche. E’ quanto sta affiorando grazie alle ricognizioni archivistiche e bibliografiche effettuate in questi ultimi anni, come dimostrano ad esempio il fondo di musiche flautistiche settecentesche della famiglia Ricardi di Negro di Udine; quello di Luigi Leopardi, fratello di Giacomo, a Recanati; quello appartenuto ai due fratelli Antonio e Vincenzo Sermolli a Montecatini, e così via. Per non parlare della produzione flautistica nella cerchia musicale, professionale e amatoriale che attorniava la corte lorenese a Firenze, presso la quale erano attivi flautisti e strumentisti a fiato la cui produzione è stata accuratamente studiata negli anni passati (in particolare da Nikolaus Delius). Ma Napoli non sembra essere da meno. A quanto pare i quartetti con flauto di Paisiello furono scritti proprio a Napoli nel 1800, quelli di Cimarosa più o meno nello stesso periodo sempre a Napoli, come pure quelli di Mercadante del 1813 (stesso anno del celebre concerto per tale strumento). Questa produzione flautistica napoletana spinge allora a gettare uno sguardo anche alla produzione degli strumenti musicali nel capoluogo partenopeo, rivelando così che nelle grande città del golfo si realizzavano flauti traversi di pregio e anche di particolare complessità.

Ne è prova il fatto che Giovanni Battista Orazi (m. 1804), flautista e amatore napoletano, pubblicò nel 1797 un Saggio per costruire e suonare un flauto traverso enarmonico che ha i tuoni bassi del violino. Un suo strumento, passato in eredità alla sua morte a un altro appassionato napoletano, Anania De Luca, spinse quest’ultimo a svolgere a sua volta esperimenti sulla costruzione di un flauto ‘basso’ e a contattare al riguardo due dei principali costruttori locali dell’epoca, Cristofaro Custode e Andrea Venbacher (Barbieri 1999). Ma le coincidenze non finiscono qui: tale attività sperimentale per costruire un flauto basso si svolgeva a Napoli nel 1814-15, all’incirca nello stesso periodo in cui Mercadante scriveva i suoi quartetti e il suo concerto. Ma la menzione dei costruttori napoletani di quest’epoca non potrebbe dirsi completa senza citare Giovanni Panormo, sul quale sappiamo ora molti maggiori dettagli biografici, come pure sull’attività del figlio e del nipote che continuarono la sua produzione durante il primo periodo dell’Ottocento (Nocerino 2009). Il flauto traverso insomma anche in Italia conquistò già nel primo Ottocento una considerazione che lo pose accanto all’arpa, al pianoforte, e più tardi alla chitarra e al mandolino tra gli strumenti di volta in volta preferiti dal ceto sociale di maggior successo, quello borghese, come occupazione di qualificato diletto musicale, dopo essere stato per qualche tempo in auge presso la società aristocratica. Tuttavia, convinti come spesso siamo nel riconoscere che la produzione strumentale dei grandi maestri italiani si svolse prevalentemente all’estero o per l’estero, dovremmo forse un poco ricrederci. E Napoli forse, e come sempre, andrà rivalutata.

Ciò è tanto più probabile da quando, come è avvenuto di recente, si è cominciato a conoscere meglio la produzione flautistica napoletana grazie a studi altamente qualificati (Tommaso Rossi, d’Avena Braga), per il momento limitati al secondo Settecento, ma ben presto vedremo che lo stesso vale per l’epoca di poco successiva.

© Dr. Renato Meucci (professore di Storia della Musica – Conservatorio “G. Cantelli”, Novara)